
La legge 133, nella fattispecie, prevede tagli al sistema universitario e alla scuola secondaria superiore. Ecco perché in questi giorni licei e università sono occupati (e non di certo per la reintroduzione dei grembiulini alle elementari, come alcuni servizi dei tg farebbero supporre...). Tutti coloro che parlano di studenti "manovrati dalla sinistra" (che brutta cosa, poi, privare a priori un interlocutore potenziale della capacità di intendere e volere e, quindi, della dignità di interloquire) dovrebbero mettersi l'anima in pace: la legge 133, così come è ora, prevede davvero dei tagli, li prevede in modo del tutto indiscriminato e non presuppone alcun reinvestimento nell'istruzione pubblica. Vale a dire che non si tratta in alcun modo di tagli fondati su criteri meritocratici o sull'esigenza (sacrosanta) di razionalizzare il sistema e di eliminare gli sprechi. Allo stato attuale delle cose, non si dà nulla al sistema educativo nazionale, si toglie soltanto (e anche molto). E se proprio non ci credete andatevi a leggere il provvedimento.
Il senso che si può trarre dagli accadimenti degli ultimi mesi e, soprattutto, dalla loro cronologia è questo: prima il Ministro dell'Economia decide di tagliare alcuni finanziamenti per esigenze di bilancio, poi, nei mesi a seguire, il Ministro della Pubblica Istruzione è obbligato ad inventarsi una cosiddetta 'riforma' per giustificarli agli occhi dell'opinione pubblica. A questo punto, è inutile entrare nella bagarre "riforma sì, riforma no", perché in tutto l'iter decisionale governativo che ho brevemente riassunto l'idea di riformare, di aggiornare, di migliorare non ha mai fatto davvero capolino. E' stata soltanto e semplicemente una questione di conti.
In soldoni, la mia critica - il motivo per cui io, se fossi ancora studentessa, protesterei (e la politica non c'entra niente, proviamo ad essere seri) - è proprio questa: la più totale assenza di un vero progetto di miglioramento del sistema scolastico e, in particolare, universitario. E, già che siamo in tema di critiche, avrei lasciato fuori dalla discussione e da questo impeto riformatore la scuola primaria, che oggi è l'unica a funzionare davvero: chiedetelo ai genitori e agli insegnanti, se proprio non vi fidate delle valutazioni internazionali.
Intendiamoci: chi scrive sarebbe più che favorevole ad una riforma dell'università pubblica - che però deve rimanere tale, e non essere mandata sul lastrico per salvare, che ne so, Alitalia... -, ad un sistema che privilegi il merito (quello vero, senza scorciatoie del tipo "andare fare determinati concorsi al sud perché è più facile"...), che favorisca un costante e valido ricambio generazionale, che faccia sì che le università italiane possano attrarre ricercatori stranieri (cosa che oggi non accade, ed è gravissimo per un Paese occidentale), che non obblighi ad umilianti iter burocratici per avere a disposizione la strumentazione necessaria e indispensabile alla ricerca, che non tramuti la voglia di fare e di innovare in frustrazione e che non spinga i più giovani e motivati alla fuga (sia essa all'estero o in direzione di altri ambiti lavorativi). Come vedete, non si tratta di difendere i baroni e le baronie (lungi da me...). Si tratta di ribadire il concetto che per migliorare è necessario investire energie e risorse, oculatamente, razionalmente, certo, ma pur sempre investire. Ecco: se il Ministro volesse sposare questi principi di riforma (disponendosi un attimo al confronto, che ascoltare le ragioni altrui non fa mai male) non starei a fare le barricate preventivamente, perché sono ben consapevole del fatto che intervenire è sì difficilissimo, ma anche necessario.
Quello che non emerge dai nostri giornali, emerge a volte, curiosamente, da quelli stranieri. Per carità, l'Italia vista dall'estero deve sembrare un puntino geografico quasi trascurabile, dato che sono davvero poche le testate che si occupano di noi (a parte il delitto di Perugia, di cui scrivono tutti i quotidiani anglosassoni). Ciononostante, ho trovato dei buoni articoli, come questo su Le Monde e questo sul Financial Times. Come al solito, i francesi dimostrano di adorare le manifestazioni di piazza, mentre gli inglesi tentano di mettere alcune situazioni in prospettiva, a modo loro.